giovedì 25 agosto 2011

Che cosa si intende per Arteterapia


Per arteterapia, nella prospettiva del metodo dell’Arte Globale, si indica un
intervento fondato su comportamenti e capacità creative prodotte dal
soggetto ed orientato alla soluzione di un problema specifico, con obiettivi
terapeutici specifici sia diretti che indiretti. Le variabili conosciute divengono
gli strumenti per un intervento efficace.
Definizione di un concetto di Arteterapia
L’ arteterapia consiste nell’impiego delle diverse discipline artistiche o
creative e dei loro codici espressivi specifici, tutto è orientato ad un
obiettivo mirato. Per creatività si intende un comportamento naturale già
presente nel bambino, che nella pratica estensiva diviene una forma di
linguaggio evoluto, detto anche arte: arte visiva, musica, fotografia,
scrittura, narrazione, danza e soprattutto teatro, che è già multidisciplinare
per sua natura perché le contiene tutte le altre forme d’arte. In un
approccio olistico i differenti codici che coinvolgono le vie cognitive e
percettive nell’attività ludico-creativa vengono utilizzati tenendo conto delle
differenze e preferenze individuali, oltre che dell’aspetto intellettuale ed
emotivo, in questo modo è possibile ottimizzare i risultati. Gli elementi che
costituiscono l’intervento arteterapeutico possono quindi essere tarati su
misura per la persona come il dialogo in un colloquio clinico, questi codici
simbolici possono divenire una via preferenziale per la comunicazione in
particolare dove si incontra povertà di linguaggio. Questo approccio lo
definisco multidisciplinare perché, come specificato sopra, impiega diverse
tipologie di attività artistica e creativa in forma ludica coinvolgendo tutte le
aree della persona: dalla sfera emotiva a quella cognitiva, entrambe
connesse alla della coordinazione psicomotoria fine. Proprio il gesto legato
all’intenzione e all’emozione che produce un risultato osservabile e
modificabile nel mondo esterno conferisce all’arteterapia una qualità che
manca a molte forme di psicoterapia convenzionali, dove il colloquio rimane
sostanzialmente l’unica strumento a disposizione del terapeuta.
L’arteterapia è uno strumento come altri che i terapeuti hanno a
disposizione, non deve essere considerata ad esclusivo appannaggio di
psicologi o psichiatri ma deve restare aperta all’apporto delle scoperte
derivate dal lavoro di tutte le persone che la metodo in pratica seriamente
nelle loro professionalità; trattandosi una disciplina giovane, se isolata,
rischierebbe altrimenti di divenire sterile. Le procedure non devono essere
rigide: sia la persona che le situazioni evolvono così come i problemi. Nel
corso di una sola stessa seduta può accadere qualcosa di cui si deve
immediatamente prendere atto, correggendo all’occorrenza la metodologia.
L’arte nell’evoluzione dell’uomo è un’espressione antica ma in un contesto
terapeutico moderno che si propone obiettivi specifici e verificabili è ancora
una cosa nuova, che deve crescere.
Finalità dell’Arteterapia
Le finalità sono essenzialmente tre. La prima, il primo livello, è quello di
lettura: nell’azione creativa, esercitata in forma di gioco quindi meno
soggetta a forme di controllo tipiche del linguaggio parlato, possiamo
leggere la natura di un’eventuale problematica insieme alle risorse già
presenti nell’individuo per il suo superamento. Potremmo dire che
determinati atti creativi, opportunamente canalizzati, anche spontanei, sono
delle vere e proprie dichiarazioni simboliche intimamente connesse al
vissuto personale. Non di rado capita di cogliere in disegni o composizioni
di altra natura una rappresentazione relativa ad un conflitto interiore non
dichiarato apertamente. Spesso mescolati ai vari nuclei compositivi, per
esempio che costituiscono una collage, si possono trovare suggerimenti
simbolici riguardanti le soluzioni pragmatiche di un problema. Il processo si
svolge in modo del tutto spontaneo ad insaputa dell’individuo stesso che ha
prodotto l’opera. Questo è possibile in quanto le resistenze normalmente
attive nei colloqui vengono aggirate dalla distrazione e dalla concentrazione
che implica il gioco creativo. Insieme agli aspetti delle sfera emotiva vanno
considerati quelli dell’area cognitiva: in una composizione pittorica
possiamo acquisire utili informazioni riguardanti l’intelligenza associativa e
la struttura di personalità, la capacità di problem solving ed i margini di
sviluppo e recupero. In pratica le opere di creatività possono espletare una
funzione strumentale conoscitiva molto profonda al pari di molti test
proiettivi o intellettivi, senza però averne le caratteristiche standardizzate.
Il secondo livello terapeutico è individuale e impiega l’atto creativo come
azione risolutiva concreta dall’interno verso l’esterno. Una volta definiti gliobiettivi si possono utilizzare i linguaggi artistici per aggirare difficoltà
comunicative e problemi d’altra natura, ad esempio affettiva. Le potenzialità
espressive individuali vengono incoraggiate tramite la pratica di quelle
discipline in cui la persona è maggiormente dotata, o al contrario carente.
Sul piano introspettivo l’uso del linguaggio simbolico dell’arte permette
all’individuo di accedere un percorso di crescita che coinvolge in primo
luogo verso ma si orienta poi verso lo sviluppo della socialità. Piani di lavoro
individualizzati tengono conto di esigenze personali specifiche quali lo
sviluppo di aspetti carenti nella personalità, il superamento di conflitti o
determinate strutture concettuali rigide ed obsolete, la consapevolezza dei
contenuti della sfera emotiva e delle proprie potenzialità di crescita.
Per mezzo dell’arte, il linguaggio adulto della creatività, una persona può
giungere a realizzare una parte di se che non trova spazio nella
quotidianità, in particolar modo oggi nel lavoro. Per questo motivo la
letteratura di settore afferma spesso che le energie psicoaffettive che non
trovano la loro naturale applicazione nella vita quotidiana possono
trasformarsi in sintomo patologico. Invece, se opportunamente incanalate
nell’attività artistica attiva, l’originale nucleo problematico può trasformarsi
nella fonte a cui si attinge per la realizzazione di opere di creatività. La sua
valenza diviene da sterile / negativa a positiva / propositiva. L’individuo si
pone rispetto a sé e agli altri in maniera costruttiva, senza doversi
adeguare a modelli rigidamente predefiniti, esprimendo così quella parte
della sua natura che non trova altrimenti espressione.
Al terzo livello l’arteterapia si propone come mezzo di integrazione sociale,
che si palesa nell’incontro del singolo col gruppo ed eventualmente col
pubblico per mezzo di eventi culturali opportunamente organizzati. Questi
episodi hanno una funzione estremamente strutturante e insieme
educativa. Ad esempio in un certo tipo di teatro, pur esistendo dei ruoli
definiti, le persone che partecipano devono rispettare delle regole
mantenendo ampio margine di libertà espressiva. Si ritrova quindi
all’interno di un contesto in cui vanno ad inserirsi i membri del gruppo una
struttura che riflette le caratteristiche di una piccola società a misura d’
uomo. La finalità sociale dell’arteterapia è forse la sua qualità più
importante. Nei laboratori che conduco cerco sempre di proporre come
scopo ultimo la produzione di un evento: una mostra, un concerto, uno
spettacolo teatrale o altre forme ibride. La forza del metodo
multidisciplinare si fonda sull’interazione dei diversi linguaggi che l’arte
impiega all’interno di un singolo evento pur mantenendo la loro identità
distinta. Le terapie della psicologia e della psichiatria moderna devono
proporre strumenti integrativi efficaci che aiutino le persone ad affrontare
meglio la quotidianità e migliorare la vita negli aspetti più comuni poiché
questi corrispondono alle necessità umane fondamentali.
L’arteterapia è una forma di comunicazione
L’arteterapia è un linguaggio individuale e collettivo. Tramite l’atto creativo
l’individuo dice qualcosa che riguarda la sua esperienza. La creatività
esercitata in forma di gioco, in modo non accademico o scolastico, può
essere una chiave di lettura. I contenuti dei messaggi artistici espressi in
forma libera libero spesso sono più spontanei rispetto a quelli del colloquio,
dove è esercitato un maggior controllo, essendo formulati però in forma
simbolica sono talvolta anche più difficili da decifrare. Ciò non è molto
dissimile dalla tecnica delle libere associazioni usata in, strumento di
indagine privilegiato che si snoda in un percorso non logico ma appunto
associativo ed analogico. Dal momento che la logica razionale non tollera
facilmente oggetti non collocabili in reti concettuali strutturate, piuttosto
tende a escluderle tali rappresentazioni quando si presentano; non per
questo motivo significa che tali oggetti non esistano. L’inconscio come
istanza psichica largamente riconosciuta opera probabilmente proprio
mediante meccanismi analogici piuttosto che logici. Pur possedendo le
opere di creatività migliori una solida struttura formale sono però prive di
forza se mancano di contenuto poetico. La poetica riguarda quegli elementi
non logici capaci di suscitare contenuti emotivi, affettivi e simbolici. L’arte,
al contrario di una dichiarazione politica, che si vuole oggettiva per quanto
possibile, resta soggetta a interpretazioni molteplici. Deve essere in qualche
modo vuota, o meglio libera della personalità di chi l’ha realizzata: è così
possibile utilizzarla come un contenitore, uno specchio attraverso cui si
verifichi un meccanismo di identificazione grazie al quale gli altri possano
esplorare se stessi, un po’ come accade in un salotto comodo o in un luogo
interessante da visitare.
La funzione della creatività è educativa e dotata di due aspetti
fondamentali: una funzione strutturante e una destrutturante. Alcune
problematiche possono sussistere perché la persona è oberata da un
eccesso di strutture psichiche di controllo, siano esse di natura sociale o
problemi concreti che l’individuo non riesce a risolvere a causa della sua
rigidità. In questo caso è opportuno creare un contesto in cui durante
l’attività questa persona possa alleggerirsi di questi pesi un po’ per volta. In
questo caso la funzione dell’interveto arteterapeutico sarà destrutturante.
Un esempio utile è il caso di un soggetto che abbia difficoltà a vivere ed
esprimere pienamente le emozioni, perché in qualche modo se lo nega.
Attraverso l’esperienza artistica può farne esperienza rimanendo al tempo
stesso protetto poiché la contestualizzazione funge da protezione
giustificando l’espressione emotiva in relazione al gruppo. Da un altro lato,
si presentano invece situazioni con patologie importanti cui l’individuo
necessità di un percorso rieducativo che gli fornisca strumenti adeguati per
integrarsi socialmente, mezzi di cui fa un uso improprio o povero. In questo
caso l’intervento avrà una funzione decisamente riempitiva e strutturante.
Oggi è condiviso un concetto più moderno e forse corretto di disturbo
psichico perché si parte dal problema della sofferenza percepita: alcuni
comportamenti originali non sono più definibili come patologici a meno che
siano vissuti con un disagio percepibile o arrechino danno al prossimo.
In un modello teorico viene definito il concetto di intelligenza emotiva come
la capacita di gestire le emozioni in maniera adeguata in rapporto al
contesto. La rieducazione è un compito che coinvolge l’operatore non
soltanto per quanto riguarda l’aspetto emotivo ma anche quello del
pensiero e le modalità attraverso cui è processato, quando si possano
riscontrare disordini e carenze. Nella psicosi l’attività creativa può
canalizzare l’energia emotiva allo stesso modo in cui un letto artificiale può
contenere il corso di un fiume, aiutando il paziente a strutturare personalità
e pensiero al tempo stesso, dandogli la possibilità di acquisire
gradualmente risposte affettive più consapevoli e adulte.

La creatività migliora la capacita di associare, a mio avviso la forma di
intelligenza più alta perché in grado di produrre qualcosa di nuovo
attraverso le operazioni sintetiche di problem solving. Molte patologie della
sfera psicotica intaccano proprio questa capacità associativa nella forma
volontaria e lucida. Ecco che in questi casi l’arte si propone con una
funzione altamente strutturante ed educativa. Il controllo clinico viene
esercitato sulle variabili osservate per quanto possibile in una materia come
l’arte: quelle coinvolte a produrre il cambiamento, oppure sul margine di
tolleranza ed elasticità delle strutture psichiche al fine per non creare
carichi o un vuoti che creino disagio. Un costante monitoraggio delle
reazioni in rapporto agli stimoli proposti è necessario per valutare gli
obiettivi prefissati. Ma in ultima analisi non è tanto il controllo dell’individuo
che interessa il terapeuta, quanto il senso di libertà di cui il soggetto può
fare esperienza e gestire per mezzo dell’azione creativa.
di Stefano Scippa

Usa l’arte per non essere in disparte




Arte psico terapia nella globalità dei linguaggi!


Per arte-psico terapia nella g.d.l (globalità dei linguaggi) si intende una attivazione di risorse che tutti abbiamo.
Sviluppa la capacità di elaborare il proprio vissuto consiste nel trasmetterlo creativamente agli altri. È un processo educativo, laddove educare sta per “educere”  portar fuori: far emergere la consapevolezza una maggior conoscenza di sé mediante la pratica espressiva, l’osservazione e il confronto. Gli ambiti di intervento sono fondamentalmente quello educativo, riabilitativo e terapeutico. Anche se i confini tra loro risultano di frequente indefiniti o sovrapposti. Questa attività si rivolge non solo a chi possiede conclamati problemi di natura fisica e/o psichica, ma, può rivelarsi un esperienza straordinaria perché attiva meccanismi di apprendimento attraverso la modularità del gioco.
Il lavoro creativo e la possibilità di canalizzare l’esperienza con il gioco dà modo di costruire un ponte reale tra interno ed esterno, tra consapevole ed inconsapevole.
Infatti nessuno manifesta giudizi, preferenze  estetiche o morali nei confronti dei lavori altrui, in quanto lo scopo è quello di agevolare l’individuo ad esprimersi
nell’involucro del gruppo.
Il lavoro dell’arte terapia consente al soggetto di vivere ed esprimere il proprio spazio interiore e contemporaneamente consente di far affiorare alcuni nodi conflittuali senza dover necessariamente vivere conseguenze spiacevoli e poco gestibili, perciò inaccettabili.

benessere creativo del bambino


 L’essere umano comincia molto presto a giocare. Già a partire dai due o tre mesi di vita iniziano nel neonato i primi sfregamenti, i primi versetti, che altro non sono che i primordiali tentativi di attività ludiche.

Il gioco è, di fatto, uno degli aspetti più importanti per comprendere il benessere psicologico del bambino.  
Il gioco nasce in assenza della madre, è un tentativo di ricrearne la presenza. In sostanza è un richiamo alla mente di ciò che in quel momento manca, non è presente. Ed è importante lasciar fare, perché significa che il bimbo inizia autonomamente ad avere i suoi pensieri, le sue immagini mentali. Appare allora fondamentale che il genitore conceda questi spazi e che non anticipi il bambino nei suoi primi tentativi creativi.

Gesti, versi, l’uso delle mani, nel neonato possono essere non richieste di attenzione da parte della madre, bensì proprio i primi tentativi di ricreare l’emozione del legame anche in sua assenza. È chiaro allora che, affinché il gioco sia possibile, deve esistere la relazione con la madre, quella relazione che viene definita primaria. Se un bambino non gioca, il legame primario può essere stato faticoso, conflittuale, incerto o comunque vissuto in maniera non sufficientemente appagante o soddisfacente. Soffermiamoci per esempio sul gioco del cucù, in cui un oggetto o una persona si nasconde dietro uno straccio. Il bambino di un anno immagina il volto o l’oggetto utilizzato nascosto e si aspetta che torni. Questo è possibile proprio perché il piccolo possiede l’immagine mentale e dell’oggetto e dell’adulto celato. Così egli sa che la madre, di cui ha interiorizzato l’immagine, tornerà.


Man mano che il bambino cresce cambiano anche i giochi: iniziano per esempio a essere utilizzati degli oggetti, vengono realizzate le prime costruzioni. In questi momenti è assolutamente fondamentale dare valore a quanto nostro figlio ha prodotto. Il bambino è fiero di ciò che ha fatto perché ha realizzato, per esempio, una fila ordinata di animali o di automobiline: è la concretizzazione di un suo pensiero, è il suo personale modo di riflettere e, in qualche modo, di controllare la realtà che è ancora tanto misteriosa e complicata. Rispettare e apprezzare il gioco spontaneo del bambino è allora importante soprattutto perché può essere un modo efficace per contribuire ad alimentare la sua autostima.
  
Il gioco è la prima forma di creatività dell’essere umano e ha una funzione rappresentativa del proprio mondo interiore. Giocando il bambino cerca di capire se stesso, il proprio mondo interiore, ma anche la realtà esterna, le relazioni umane che lo circondano e lo coinvolgono. Per fare un esempio: un oggetto qualsiasi può diventare nelle mani di un bambino un aeroplano o un’automobile, un orsetto di pelo può parlare, uno straccetto può diventare un mantello; e tutto quello che i bambini fanno o dicono con gli oggetti scelti per giocare, parla di loro, dei loro pensieri, delle fatiche e delle gioie della loro crescita. Così vanno per il mondo i bambini, così, giocando, cercano di comprenderlo.

Ma se il gioco è rappresentazione simbolica del pensare individuale, allora è bene cercare di evitare i giochi precostituiti perché limitano la libertà creativa del bambino. Per esempio: le bambole che non fanno nulla sono preferibili a quelle che, alimentate da batterie, piangono, ridono o fanno pipì. Sarà la bambina in assoluta libertà a simulare il pianto e il riso del giocattolo e così potrà portare a termine le sue riflessioni che altro non sono che un’indagine sulla realtà che la circonda. 

Ma non esiste solo il gioco individuale: crescendo trovano spazio anche quelli che presuppongono l’interazione con altri bambini. In questo tipo di attività ludica i bambini cercano di capire le relazioni umane e, quindi, il loro ruolo rispetto agli altri.
   
Nell’adulto la rappresentazione creativa ha la sua manifestazione nella cultura. La lettura di un libro o la visione di un film sono fonti di coinvolgimento emotivo. Ma le emozioni che proviamo, pur nella consapevolezza che siamo davanti a simboli e metafore, cioè a rappresentazioni, sono reali e provengono da quel mondo interiore, tutto nostro, al quale non smettiamo mai di attingere per tutta la vita. Proprio rapportandoci con le diverse espressioni artistiche abbiamo da adulti l’occasione di riflettere su noi stessi e di indagare la realtà che ci circonda, e questo in maniera personale ed intima. 

Accompagnare il morente


Accompagnare il morente
Sono molte le occasioni della vita in cui siamo costretti a lasciare qualcosa o qualcuno, e che segnano la nostra esistenza in modo tangibile, talvolta drammatico, drastico ed irreversibile.
Talvolta la vita non ci da la possibilità di accompagnare chi se ne sta andando, ma nelle occasioni in cui questo è possibile siamo comunque esposti ad enormi difficoltà, incertezze, dolore, emozioni contrastanti e senso di impotenza.
L’accompagnamento del morente è un compito molto difficile da attuare come persone e come professionisti. E’ un processo nel quale si può solo cercare di capire come adoperarsi al meglio, in base alla proprio specifico professionale, al fine di garantire una morte più dignitosa possibile.
E’ inevitabile e doveroso, chi come medico, psicologo ,counselor, terapeuta nella globalità dei linguaggi o infermiere, confrontarsi con le personali paure, reticenze, senso di impotenza e domande, per potersi anche solo lontanamente muovere nel difficile momento della dipartita di un paziente, il momento, per lui, più importante di tutta la sua esistenza. Senza questo passaggio non ci si può immaginare di essere di sostegno ai cari, a chi resta, a chi assiste, e di saper gestire la situazione in modo delicato quanto professionale.
E’ inevitabile toccare, conoscere e saper accettare le proprie emozioni di fronte a qualcuno che muore, per integrarle con la propria professionalità, e farle diventare uno strumento di lavoro. Le emozioni possono infatti, per quanto negative e pervasive, trasformarsi in una risorsa dell’operatore sanitario che, attraverso la relazione d’aiuto, tenta di sostenere sé stesso, il morente, ed i suoi cari.
La morte è come è, e quello che possiamo fare è solo cercare, per noi, una posizione, la più comoda possibile, accanto a chi se ne sta andando, e cercare di rendere omaggio, rispetto e considerazione, alla partenza, verso non si sa dove, di qualcuno. La morte ha il grande pregio/difetto di mostrarci come in uno specchio, i nostri confini umani e professionali, medici, infermieri o psicologi che siamo, ma di ritorno è un’esperienza talmente forte e ricca che ci permette di imparare una serie di cose che in nessun altra esperienza ci sarebbe dato apprendere. Ecco perché accompagnare il morente, oltre ad essere necessario e doveroso, può essere anche nutriente ed estremamente vivificante per chi lo fa.

chi è un counselor

a) Definizione di Counselling: il Counselling è un processo di apprendimento, attraverso un’interazione tra Counsellor e cliente, o clienti (individui, famiglie, gruppi o istituzioni), che affronta in modo olistico problemi sociali, culturali e/o emozionali. Il Counselling può cercare la soluzione di specifici problemi, aiutare a prendere decisioni, a gestire crisi, migliorare relazioni, sviluppare risorse, promuovere e sviluppare la consapevolezza personale, lavorare con emozioni e pensieri, percezioni e conflitti interni e/o esterni. L’obiettivo nel complesso è di fornire ai clienti opportunità di lavoro su se stessi, nell’ottica di raggiungere maggiori risorse e ottenere una maggiore soddisfazione come individui e come membri della società.

b) Definizione di Counsellor: Il Counsellor è un’operatore d’aiuto in tutte quelle situazioni che hanno a che fare con relazioni umane, da quelle professionali a quelle interpersonali fino a quelle con se stessi. Il concetto di relazione d’aiuto si può intendere in varie maniere naturalmente: una è quella dell’aiuto attraverso la relazione, in cui la relazione appunto fra operatore e cliente è paradigma relazionale, la cui qualità funziona come esempio per le altre relazioni. Altra implicazione possibile è che si tratti di aiutare ad aiutarsi: l’operatore in questo caso avrebbe una funzione di catalizzatore di avvenimenti interni, e non di sostituto di capacità mancanti.

c) Aiutare ad aiutarsi attraverso la relazione è il significato di Counselling come si intende 



  • Il Counsellor non detiene una conoscenza sinonimo di potere sul cliente. La conoscenza di ognuno ha uguale validità, ed è solo perché il cliente chiede l’intervento del Counsellor che questo può intervenire proponendo punti di vista diversi, allo scopo di facilitare i cambiamenti richiesti dal cliente. Se il cliente non li accetta, non significa che sbaglia: ha il pieno diritto di ritenere più adatti i suoi punti di vista. Naturalmente anche il Counsellor ha il diritto di mantenere i suoi punti di vista, e di dichiarare una incapacità di intervento alle condizioni del cliente.
  • Il Counsellor, per "aiutare attraverso la relazione" deve essere in relazione, e per essere in relazione qui si intende stare nel campo dove si trova il cliente (teoria del campo di Lewin), oppure anche "stare sotto lo stesso orizzonte degli eventi", secondo l’espressione usata da Bateson, cioè partecipare all’esperienza che sta facendo il cliente.
  • Il Counsellor è un professionista pagato dal cliente, che non ha nessuna voce in capitolo nella vita del cliente se non nei termini richiesti dal cliente. Su richiesta può fornire opinioni, ma si ritiene qui deontologicamente scorretto che fornisca consigli, anche se richiesti.
  • Il Counsellor è un agevolatore della comunicazione, interpersonale o intrapsichica che sia: è suo compito aiutare le parti in causa a capirsi cognitivamente, a riconoscersi vicendevolmente sul piano emozionale, a scoprire modalità di dare forma alle molteplici correnti intrapsichiche in modo da renderle ponte d’interazione col mondo esterno e materiale di scambio nella relazione.
  • La più significativa capacità di aiutarsi dell’essere umano è qui considerata la creatività: un compito fondamentale del Counsellor è di promuovere nel cliente l’attivazione della creatività, che qui si intende caratteristica naturale, contingentemente ipotrofica ma potenzialmente disponibile. Il Counselling infatti ha una funzione culturale di primo piano nella società moderna: mentre la tradizionale rete sociale costituita dalle famiglie allargate si riduce progressivamente come effetto della famiglia nucleare che si appoggia preferibilmente ai servizi sociali, niente si sostituisce che contenga e veicoli le comunicazioni fra estranei. Non c’è abbastanza cultura politica, né di movimenti sociali né di quartiere, c’è poca cultura religiosa e pochissimo associazionismo laico che possano mediare la distanza fra le persone: le tradizioni sono diventate rapidamente obsolete, e i maggiori poli aggreganti sono le discoteche, dove il rapporto fra le persone è mediato tutt’al più dalla musica, e pochissimo dalla parola. I gruppi in cui si raccolgono i giovani sono in genere relazionalmente primitivi, e in sostanza non è disponibile un sistema di comunicazione collaudato su cui fare conto.
  • Il Counselling si inserisce in questo vuoto culturale come una risorsa e una possibilità di ricerca e di sviluppo organici ai bisogni emergenti, che oltre ai rapporti sociali interessano anche quelli professionali: sono infatti diventati difficilissimi per esempio i rapporti fra insegnanti e alunni, o quelli fra medici e pazienti: una volta caduto il mito dell’autorità, questi professionisti sono diventati per l’interlocutore delle persone qualunque, con ben poca credibilità. Uno sviluppo delle capacità di comunicazione è di importanza centrale per queste professioni, e in genere per tutte quelle che trattano con il pubblico attraverso una relazione differenziata.
  • Corsi di Counselling, cioè corsi di addestramento alla relazione d’aiuto, sono e saranno sempre più di primaria necessità per diffondere strumenti di comunicazione flessibili e funzionali, che sono indispensabili per una società multidimensionale e multietnica.




Il disgusto


Letteralmente la parola disgusto deriva dal latino “dis-gustus” e significa “cattivo sapore, cattivo gusto”; già da questa definizione si nota lo stretto legame di questo termine con il gusto (e quindi con il cibo). Ciò è dovuto, in particolare, a due motivi: in primo luogo quando qualcosa ci appare disgustoso tendiamo ad assumere una configurazione del volto identica a quella di quando odoriamo o assaggiamo cibi ripugnanti; inoltre è una sensazione che può provocare nausea (solitamente legata al cibo), la quale a sua volta provoca  vomito, effetto e alla stesso tempo causa del disgusto. Il vomito, infatti, da un lato permette di liberare lo stomaco da ciò che è ripugnante e dall’altro suscita conati nell’interessato e in chi gli sta accanto.
A partire dalla seconda metà dell’800 con Darwin, che riconduce il disgusto a quanto detto sopra, diversi autori si sono interessati allo studio di questa particolare tematica, spaziando tra tanti ambiti, senza però riuscire a formulare una definizione univoca del disgusto, che appare come un sentimento complesso, caratterizzato da diverse sfaccettature.
E’ solo a partire dagli anni ’80 che il disgusto diventa oggetto di attenzione costante da parte della psicologia. Il tardivo interesse verso questo argomento è causato dall’idea che si trattasse di un concetto rischioso e “tabù”, poiché, avendo un elevato potere evocativo, era opinione condivisa che parlarne o scriverne probabilmente potesse finire con il suscitarlo.
È da questo momento, grazie all’aumento degli studi e delle ricerche empiriche, che il concetto di disgusto viene esteso da semplice reazione legata al gusto a vera e propria emozione di base.
Oggigiorno, quindi, il disgusto può essere generalmente definito come  una reazione emotiva, spesso associata a nausea, suscitata da un qualsiasi stimolo che risulti particolarmente sgradevole a una persona, sia che si tratti di una situazione reale, sia di una rappresentazione psichica


Legami tra il disgusto e le altre emozioni 

Le emozioni in quanto tali sono solo raramente uniche, separate l’una dall’altra. In generale hanno tutte delle strette relazioni tra loro: il disgusto appare associato in particolare alla paura, al taedium vitae, al disprezzo e all’odio.
Disgusto e Paura: il disgusto richiama la paura dal momento che la contaminazione induce timore  e entrambe le sensazioni sono caratterizzate dal desiderio di fuga e sono strumenti primari di socializzazione. L’orrore è prioprio disgusto unito a paura.
Disgusto e Taedium vitae:  con “taedium vitae” si fa riferimento ia sentimenti di noia, disperazione, depressione e malinconia. Il cosiddetto disgusto per la vita risulta essere un’esperienza consapevole, intellettuale ed autocosciente, tale da pervadere e rendere nauseante ogni cosa.
Disgusto e Disprezzo: nonostante le forme più intense di disprezzo coincidano con il disgusto e siano entrambi emozioni che affermano una posizione di superiorità nei confronti dei propri oggetti, vi sono differenze evidenti fra essi. Mentre è possibile che il disprezzo susciti un senso di orgoglio, autocompiacimento ed ispiri, talvolta, un comportamento benevolo e cortese nei confronti dell’oggetto ritenuto inferiore, il senso di superiorità provocato dal disgusto si esprime attraverso una sensazione sgradevole, indipendente dalla commiserazione. Ulteriori differenze sono riscontrabili anche in relazione al diverso rapporto che tali emozioni instaurano con l’amore. Se da un lato, amore e disprezzo non risultano antitetici,  dall’altro lato il disgusto è contrario all’amore, pone addirittura fine a quest’ultimo.
Disgusto e Odio: tra le due emozioni sussistono molteplici zone di sovrapposizione costituite principalmente dalla nozione di ribrezzo. Il disgusto apporta alla sensazione d’odio la propria dimensione fisica, il suo essere sgradevole a livello sensoriale
Il disgusto compare quasi in tutti gli elenchi delle emozioni di base, in quanto è correlato tipicamente a uno specifico sistema motivazionale (la fame) e a una specifica parte del corpo (la bocca).Il disgusto è un’emozione negativa di base, soggettivamente vicina alla nausea, costituita da un generico  timore di contaminazione, unito al desiderio di allontanarsi dall’oggetto che la scatena. Il vissuto è di forte repulsione e rifiuto.